Brahma Ânandam, Parama Sukhadam,
Kevalam Jñâna Mûrtim, Dvandvâtîtam,
Gaganasadrisham, Tatvamyasadhilakshyam,
Ekam, Nityam, Vimalam, Achalam, Sarvadhî Sâkshibhûtam.
Egli è:
Beatitudine eterna, Felicità suprema,
espressione di Sapienza, oltre tutte le qualità,
immenso e in espansione come il firmamento,
Ultimo, Uno, Infinito, Puro, Eterno Testimone.
La Beatitudine di Dio
Nell’Ânanda-valli abbiamo una magnifica spiegazione della Brahma Ânanda, la Beatitudine Divina. Essa è qualcosa che sfugge ad ogni descrizione umana; è un tipo di gioia senza limiti e, quindi, ineffabile: le parole e la mente non la possono definire. Finché non si prova di persona a sperimentare quotidianamente quella gioia stabile, tranquilla, imperturbabile, costantemente sacra, non si comprenderà mai la natura di questa beatitudine divina, la quale rimane inintelligibile nel mondo della natura fenomenica e nel campo della vita fisica, che si avvale di sensazioni materiali.
Gioie d’altro genere
Vien dato il nome di mânava ânanda, cioè di “felicità umana”, al tipo di gioia che un uomo sperimenta nella sua vita quotidiana, quando si sente in piena forma e soddisfatto. Va comunque detto che ci vogliono mille di queste gioie per fare quella che si definisce Gandharva Ânanda, la Gioia degli Angeli. La Gioia degli Angeli moltiplicata per mille fa la Gioia degli Dei, la Deva Ânanda. Mille Devânanda fanno la Gioia del Divino, la Daivânanda. La Gioia di Dio moltiplicata per mille è la beatitudine recondita nell’uomo, la Daiva Gandharva Ânanda. Quest’ultima, moltiplicata per mille sfocia nella Brihaspati Ânanda, la Gioia di Brihaspati, Guru degli Dei. Mille Gioie di Brihaspati fanno la Prajâpati Ânanda, la Gioia del Signore del Creato. E questa Gioia del Creatore, portata all’ennesima potenza dà la Beatitudine del Brahman, l’infinita Gioia di Dio.
Pensate innanzitutto a quale distanza si pone la gioia umana dalla Beatitudine Divina! Purtroppo, l’uomo non sa rendersi conto di che cosa possa significare per lui tale Beatitudine! E pensare che, per qualsiasi cosa che lo faccia felice, egli è solito esclamare: «Provo una gioia divina!». Entrando in un hotel “in” o dopo aver consumato un lauto pasto al ristorante, grida: «Divino! Che pranzo da Dio!» (risa nell’uditorio).
Che differenza c’è dunque tra le gioie della vita che gli uomini sperimentano oggigiorno e la Beatitudine Divina? Le prime sono minima cosa (anoranîyân), l’altra è potentissima (mahîyân). Quelle sono frammentarie; questa è indescrivibile e impensabile.
Alla Beatitudine Divina non si oppongono limiti di sorta e, come disse il saggio Sândîpani, «non esiste ragione» che la esprima o la descriva. Essa sfugge ad ogni logica: la Beatitudine di Dio rimane sempre, in ogni situazione, Beatitudine, nient’altro che Beatitudine.
Questa Beatitudine non è distinta dall’Âtma, poiché, se l’Âtma è Divino e il Divino è Âtma, dire Beatitudine dello Spirito è lo stesso che dire Beatitudine del Divino. In effetti, è nella natura dello Spirito esser sempre in beatitudine. Dire Brahma, quindi, significa dire Beatitudine e col nome di Brahmânanda s’intende riferirsi alla Beatitudine che pervade tutto, anche le gioie umane, che però, in quella Beatitudine si perdono come una goccia microscopica nell’oceano.
Onnipresenza dell’aria
In questo mondo l’aria è qualcosa che penetra tutto; non è possibile definire la forma dell’aria, anche se, soffiata dentro ad un pallone, prende la piccola forma del pallone stesso. Tuttavia, quel pallone non può contenere più aria del suo volume, non può oltrepassare i limiti della sua superficie. Se ciò accadesse, scoppierebbe con un sonoro “paat”!
Che cosa allora distingue l’aria che sta dentro al pallone da quella che sta fuori e si diffonde dappertutto? Nessuno può comprenderne il significato; e quindi, la Beatitudine del Brahman è ben più effusiva della Beatitudine del Signore della Preghiera (Brihaspati) e del Signore del Creato (Prajâpati). Nella parola Brahma Ânanda (citata all’inizio del discorso, NdT) tutte le parole del vocabolario si riferiscono al Brahman.
Felicità Suprema
La seconda espressione (della citazione iniziale) è Parama Sukhadam, la gioia più elevata, la felicità suprema. Di che gioia si parla? Della gioia del corpo? dei sensi? dell’intelletto? della mente? Di quale felicità si parla? Nessuno può dire con precisione che razza di gioia sia questa.
È stato detto: Kasmai namah dharmane. Che significa Kasmai? Significa «Offro i miei omaggi alla forma della felicità». In passato, tutti coloro che non si erano fatti un’immagine precisa di Dio erano soliti riconoscerLo in questo modo: «Il mio saluto all’incarnazione della Gioia». Era un modo in uso anche presso i grandi saggi d’un tempo.
Dio nella forma della gioia: è una personificazione che sfugge ai limiti del tempo. Infatti, non c’è alcun limite a quella felicità; quella gioia non è condizionata né dal tempo, né dall’azione. La Felicità Suprema non è vincolata da limiti di tempo o di cause. Per dare una descrizione corretta di una simile felicità, bisogna uscire dai criteri del mondo fisico, va escluso ogni rapporto con i piaceri del corpo. La Parama Sukha è la Gioia assolutamente priva di forma. Come descrivere la forma di ciò che è informale?
Che genere di felicità è dunque questa Parama Sukham? È Somma Gioia. Si può tentare una descrizione dell’amrita, il nettare dell’immortalità, ma non di quella gioia, perché travalica ogni descrizione. Dio è sempre la personificazione della gioia; una gioia che è sempre al di sopra di tutto, senza mai essere abbattuta dalla sofferenza né mai esaltata dalla felicità.
Personificazione di saggezza
Kevalam jñâna mûrtim: «L’eterna forma della Sapienza». Che significa kevalam? È lo stato di trascendenza delle condizioni di luogo e di tempo. Jñâna mûrtim significa che Dio è l’autentica forma della Saggezza.
Che cosa s’intende per jñâna, “conoscenza”? È forse la conoscenza dei libri? oppure, qualche altro tipo di conoscenza, come quella yogica? oppure è la conoscenza delle cose pratiche del mondo? conoscenza fisica? Che cos’è questa conoscenza? È la Suprema Conoscenza, quindi la Somma Sapienza.
La Sapienza, o Brahma Jñâna, non ha né inizio né fine; è in tutto e, come l’aria che penetra ogni cosa, pervade l’Universo. Non è insolito trovare qualcuno che dica «Costui ha letto un sacco di libri, è un cervellone», oppure «Quello è meno colto». La conoscenza di cui parliamo non è quella libresca, né quella intellettuale, ma è la piena conoscenza del vero Sé. Che forma può avere chi possiede la conoscenza del vero Sé? Che aspetto assume chi ha questa saggezza? Nella Sapienza c’è somma felicità.
La felicità è propria della natura di Dio: la Sua Beatitudine è Somma Felicità. Il sodalizio fra la Conoscenza e la Felicità fa la Felicità Suprema. L’esperienza della Suprema Felicità è Sapienza.
Oltre il dualismo
Dvandvâtîtam: «Al di là delle dualità, delle coppie di opposti». Sofferenza o gioia, critica o encomio, peccati o meriti, bene o male: niente di tutto questo Lo può toccare. In Esso non vi è assolutamente traccia delle coppie di opposti.
È su questa linea che si è espresso l’aforisma vedico: Ekam evâdvitîyam…, «La Verità è una, non due,… ed è stata descritta in molti modi dai saggi». Non due, non due! Sì, perché se si afferma semplicemente che la Verità è una, si potrebbe pensare che ve ne possano essere due. Invece, si dice che la Verità è una, non due.
Dvandvâtîtam: la natura del Brahman è oltre ogni dualità. Parama Sukhadam: Dio è Suprema Felicità. E su questi punti basta così.
Come il cielo
Gaganasadrisham: «Colui che è simile all’âkâsha, che è onnipervadente come lo spazio celeste». Dove si trova l’âkâsha, (cioè il cielo, lo spazio eterico, uno dei Cinque Elementi)? È dappertutto, pervade tutto. Nessuno può dire se sia qui o là. Gaganasadrisham significa quindi che, come lo spazio eterico occupa tutto ciò che esiste, così pure la Beatitudine Divina pervade ogni cosa. Quindi, Gaganasadrisham è un altro nome per definire Dio. E così, Brahma Ânanda, Parama Sukhadam, Kevalam Jñâna Mûrtim. Dvandvâtîtam, Gaganasadrisham,… sono tutti nomi di Dio.
Quattro Massime eterne
Ognuno dei quattro Veda ha sintetizzato l’insegnamento in quattro grandi aforismi, o Mahâvâkya. Quali sono? Eccoli:
1.Prajñânam brahma: «La Consapevolezza Divina è la Realtà Suprema o Parambrahman» (Rig-Veda).
2.Ayam âtmâ brahma: «Quest’Âtma, il Sé, è Dio» (Atharva-Veda).
3.Tat tvam asi: «Quello tu sei» (Sâma-Veda).
4.Aham brahmâsmi: «Io sono Dio» (Yajur-Veda).
Queste quattro grandi massime vediche si compendiano tutte, riducendo il loro insegnamento all’unico principio dell’unità di Dio. Qualsiasi cosa abbia una natura trascendentale è una personificazione del Divino. I quattro Veda offrono un’ampia descrizione e spiegazione dei quattro aforismi.
Un solo Dio, non molti Dei
Dvandvâtîtam, Gaganasadrisham, Tatvamyasadhilakshyam, Ekam, Nityam, Vimâchalam, Achalam.
Ekam: «Esiste solo l’Uno», ma il mondo lo percepisce come molti, sebbene si tratti solo di differenze fisiche, esteriori.
Scrivete il numero 1, e posponeteci uno 0: avete ottenuto un 10. Aggiungete un altro 0, e avete 100. Con un altro 0, avete 1.000; e poi ancora un altro, ed ecco 10.000. In questo modo potete continuare fino a milioni, miliardi, bilioni, e così via. Ma che c’è in tutte quelle cifre d’identico? La cifra 1. Togliete l’1 e non avrete che un mucchio di zeri senza valore. Ecco spiegato il significato di ekam, l’Uno.
Ekam sat viprâ bahudâ vadanti…: «Solo l’Uno esiste; lo stesso è conosciuto e descritto in molti modi dai saggi»; così afferma il Rig-Veda. Solo l’Uno: Dio. Ci possono essere infiniti nomi attribuibili a Dio; Lo possiamo vedere sotto innumerevoli forme. Ma la causa di questa visione molteplice è l’impressione suscitata dalle immagini con cui Lo rappresentiamo.
Eterno e Puro
(Ekam…) Nityam: «Non muta mai». Esso non subisce assolutamente alcuna modifica. È immutabile sia nelle tre dimensioni del tempo, (passato, presente e futuro), sia nelle tre dimensioni del mondo (Terra, Cielo e Inferi), sia nelle tre qualità naturali (sattva, rajas, tamas). È l’Uno che non muta nel Tempo, nella Natura, nei Mondi: Egli è l’Eterno, l’Eterno, l’Eterno!
Vimalam: «È senza macchia». Vi-malam è tutto ciò che è scevro da mala, da ogni sudiciume. Che c’è oggi che si possa definire libero da ogni sudiciume? La terra è inquinata, l’aria è inquinata, l’acqua è inquinata, il cibo è inquinato, l’uomo è inquinato, tutti i suoi pensieri sono inquinati. È una sozzeria diffusa. Soltanto Dio rimane sempre libero da qualsiasi impurità, è sempre Vimalam: Egli è il “Senza macchia”.
Fermo e Immutabile
Achalam: «Fisso, Inamovibile». Non è soggetto a movimenti. Tutto si muove: gli elementi della Natura sono in movimento; il Sole si muove; le stelle si muovono; la Terra si muove. Dovunque regna il movimento. La bobina di un film svolge sedici fotogrammi al secondo per dare l’illusione del movimento: sono sedici fotografie che si muovono e cambiano continuamente. Dunque, tutto soggiace al mutamento: la Terra cambia, il Sole e la Luna cambiano, le stelle nascono e muoiono. Colui che è Immobile è sia in ciò che si muove, sia in ciò che non si muove. Le Scritture Lo hanno definito Achalam: Egli è l’Immobile.
Sarvadhî Sâkshibhûtam: «Egli è il Testimone di ogni cosa». Questa è la Sua caratteristica. Gli antichi saggi proposero molti nomi di Dio, rispondenti al proprio sentimento, e si sottoposero a un gran numero di penitenze e rinunce per comprendere il Divino. Ognuno di loro ebbe un’esperienza personale e propria. Quindi, non si può dire che Dio abbia una forma definita, sebbene non tutte le loro descrizioni appartengano al mondo fisico. In realtà, nessuno può descrivere Dio, ma Egli è personificato come Brahma Ânanda, Parama Sukhadam, Kevala Jñâna Mûrtim, e così via.
Nârada e Dhruva
Una volta, Nârada rivolse numerose domande a Dhruva, che si stava apprestando per dedicarsi a delle penitenze: «Figliolo, tu sei piccolo e non hai mai conosciuto le lacrime del dolore, non sai che cosa sia la sofferenza. Sei un bambino; credi che sarai in grado di intraprendere una vita di austerità e di penitenze? Come pensi di orientare la tua contemplazione su Dio? Qual è la forma di Dio che ti è più congeniale e sulla quale pensi di riuscire a meditare?»
Il bambino, per tutta risposta, rispose con un sorriso; poi disse: «O figlio di Brahma, dalla cui mente nascesti, è stato Lui, il Signore, a indurmi nella determinazione di far penitenza. È Lui che farà germogliare in me la pianticella della mia decisione e che la farà crescere fino a farla diventare un albero. È Lui che farà maturare i frutti su quella pianta. E dunque, soltanto Lui baderà a me, non ne ho il minimo dubbio. Io non ho studiato le Sacre Scritture, non mi sono dedicato all’esame approfondito delle Upanishad. Tutto quello che so è il nome di Dio. Non ho altra istruzione».
Allora Nârada disse: «Quale sarebbe il nome che hai in mente?» Dhruva stette un po’ sopra pensiero; poi rivelò l’unico mantra che conosceva: «Gopî jana vallabhaya namah (“I miei deferenti omaggi a Colui ch’è caro alle gopî”)». Qui, per gopî non si devono intendere semplicemente le pastorelle di Brindâvan. Che significa gopa? Ha diversi significati: “terra”, “Veda”, “parola”, e anche “vacche”. È il prefisso “go” che suggerisce tutte quelle accezioni; il suono “go” proviene dalla parola originale “gu”, da cui viene anche govu.
Quindi, le gopika erano delle pastorelle che avevano cura di queste quattro cose: mantenevano stabile dimora nella loro terra; proteggevano i Veda; contemplavano la Parola di Dio (e il Suo Nome) e sorvegliavano le vacche dando loro rifugio e protezione. Ecco perché presero il nome di “gopika”.
In tal modo, per ognuna di loro ci fu un diverso nome che fu attribuito a Dio, ma il Signore non fu legato a nessuno di essi in particolare, perché non ha nome. Perciò Dhruva rispose pronunciando il mantra Gopî jana vallabhaya namah. «Io sono uno fra i tanti pastorelli», disse. Il che significa: io sono un Veda, sono parte della Parola, sono parte della terra e una delle mucche; io sono uno dei tanti. E allora «offro i miei omaggi a Colui che è amato dalle gopî». E Dio le protegge.
Cinque nomi per i Cinque Elementi
L’altro giorno vi ho parlato di cinque termini che raggruppano cinque descrizioni: Klîm, Krishnaya, Govindaya, Gopî jana vallabhaya, Svaha. (Swami ripete le cinque definizioni).
Klîm si riferisce alla “terra”; Krishnaya si riferisce all’“acqua”; Govinda al “fuoco”; Gopî jana vallabhaya all’“aria”; Svaha all’“âkâsha”. E così questi cinque nomi definiscono i Cinque Elementi. Quindi, anche i Cinque Elementi sono personificazioni di Dio: Klîm, Krishnaya, Govindaya, Gopî jana vallabhaya, Svaha.
Svaha, che significa “âkâsha”, è lo spazio eterico e, con esso, l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra formano i Cinque Elementi della Natura e sono l’espressione del Divino. Qualunque elemento consideriate, potete farne oggetto di contemplazione divina.
Questi nomi sono attribuibili a Dio, ma senza che essi vogliano rappresentare questa figura di Krishna o quella di Vishnu. Non sono tanti Krishna o tanti Vishnu, bensì semplicemente dei nomi che intendono riferirsi a Krishna o a incarnazioni di Vishnu. Le controversie sui nomi sono incominciate solo dopo la divisione in due sette tra i fedeli di Shiva, i Shivaiti, e i fedeli di Vishnu, i Vaisnaviti. In realtà, Dio non ha bisogno nemmeno di un nome.
Felicità nell’assenza di desideri
Kasmai namah significa “incarnazione di felicità”. Dov’è la felicità? La felicità è laddove non ci sono desideri; Dio è felicità, perché in Lui è trasceso ogni desiderio. Se farete uno sforzo, anche voi avrete quella felicità! L’infelicità è dovuta proprio ai desideri. Siate liberi anche dal più piccolo desiderio e in ciò avrete massima gioia.
In verità, che lo crediate o meno, Io non soffro minimamente: sono sempre la personificazione della gioia. Il mio corpo e la mia mente non ospitano assolutamente ansie di nessun genere; ma, dal momento che sono dotato di un corpo che entra in relazione con i corpi dei devoti, sono interpellato anche dal punto di vista fisico e mi è possibile, dunque, prendermi cura delle loro preoccupazioni, sofferenze, dolori (bâdha) e di tutto quanto li riguarda. Qualsiasi Mio desiderio, azione o pensiero, è unicamente per la vostra felicità.
Egoismo in tutto
Nel mondo in cui viviamo è comune il pensiero di volere dei risultati; ma, c’è da chiedersi, si desidera forse un frutto per la semplice gratificazione del frutto stesso? Certo che no! Voi desiderate dei frutti per la vostra soddisfazione. Dite, per esempio, «Voglio un abito», ma volete l’abito perché esso ne sia soddisfatto? No, no! L’abito, voi lo desiderate per voi stessi. Desiderate un certo pranzo per far piacere al cibo? No. Lo desiderate perché siete voi ad aver fame. In ogni singola azione c’è sempre un io, io, io, io. Ma in campo spirituale non prevale più l’io (aham), bensì l’“unica realtà” (ekam).
Individuo, Comunità e Dio
Esistono al mondo tre modi di vedere la realtà divina: Paramâtma (lo Spirito Supremo), Ekâtma (l’Uno e non duale) e Dvaitâtma (il Duale). Corrispondono anche a tre altre definizioni: Veshti (l’Individuo, che possiede il jîva, l’anima individuale), Samashti (la Collettività) e Parameshti (Dio).
Parameshti è onestà. Che cosa s’intende per onestà? È la natura dell’Âtma. Se pensiamo di voler raggiungere il Divino, dobbiamo fonderci con l’individuo e la collettività. Immergendoci nella comunità ci si fonde col Divino, si diventa Dio, Daiveshti.
Per giungere al Quarto Stato, occorre unirsi all’individuo e alla collettività. Non si giunge al Divino rimanendo solo con l’individuo. Per questa ragione si è voluto definire quella condizione Brahma Ânanda, Beatitudine Divina, e chi accarezza questo desiderio, lo realizza nell’unione con Dio.
La visione di Dio
State uniti alla comunità, poiché tutti siamo una sola cosa. Tutti siamo uno. Questo i Veda lo hanno insegnato fin dal principio: «Abbiamo veduto Dio; Egli è sia nel Sole che risplende, sia nelle tenebre». «O uomini, noi abbiamo veduto il Signore», hanno potuto affermare i saggi dopo aver compiuto rigorose penitenze.
«Abbiamo veduto Dio: Egli è nello splendore del Sole»; Egli è lo stesso splendore del Sole. Però, «Egli è anche nelle tenebre». Dio si trova anche nelle tenebre, oltre che nello splendore del Sole: Luce e Tenebre.
Per queste loro affermazioni, ai saggi fu chiesto se avessero veduto il Signore mediante una visione interiore o esteriore. Non c’è differenza tra la visione interiore e la visione esteriore, poiché, come dicono le Scritture, «il Signore (Nârâyana) è presente sia dentro che fuori; Egli è dappertutto». Perciò, alla domanda su dove essi avessero veduto Dio, si risponde che Lo videro dappertutto.
La Beatitudine si sposa alla Sapienza
Brahma Ânanda: Dio è presente sotto forma di beatitudine. Quindi, il Divino che è presente dovunque e che è Parama Sukhadam, cioè pienamente soddisfatto della propria felicità, non ha desiderio alcuno. Non ne ha assolutamente bisogno, perché è somma felicità. Tale Gioia Suprema si trasforma in Saggezza Suprema, Parama Jñâna.
La felicità, ovunque si muova, è seguita dalla saggezza. Quindi, in Dio c’è saggezza, felicità, beatitudine; esse non dipendono da cause. Le qualità del Divino non sono per nulla causate, poiché Dio trascende ogni azione e causa e non è limitato né dal tempo né dallo spazio.
Sogno e sonno profondo
Vi porto un piccolo esempio. Ora voi vi trovate qui al Gokulam di Prashânti Nilayam. Immaginate di essere coricati nella vostra camera e di fare un sogno. Sognate di essere partiti per Calcutta e di essere giunti in quella città. Dovevate andarci e ci siete andati, ma solo in sogno. Ci sono molte domande, infatti, a cui dovete trovare una risposta. Per quale ragione siete andati a Calcutta? Con quale mezzo e con chi ci siete andati? Che cosa vi ha spinto ad andarci? La causa e l’azione non si conoscono affatto: il sogno trascende l’influsso di spazio e tempo.
Se invece aveste pensato di recarvi davvero a Calcutta e di raggiungere realmente quella città, questa mattina alle 7 vi sareste trovati su un aereo e, nel giro di quattro ore, sareste arrivati a Calcutta. Atterrati a Calcutta, avreste poi preso un taxi e vi sareste fatti condurre a casa vostra. Quale ragione vi spingeva a fare questo viaggio? Il desiderio di vedere i vostri parenti. Dunque, incontrare i parenti è la ragione, la causa della vostra azione; l’azione è la decisione di prendere l’aereo e il viaggio. Quando è avvenuto il viaggio? Alle 7 del mattino; e questo è il tempo implicato nell’azione. Tempo (kâla), azione (karma), causa (kârana) e l’impegno preso (kartavya-karman) sono i quattro fattori che vengono a combinarsi nella realtà concreta.
Nello stato di sogno, però, queste quattro condizioni — tempo, azione, causa e dovere — non esistono, mancando le condizioni di spazio e tempo. Perciò, si chiama sogno. Non è ciò che accade veramente; è vero, nel senso di concreto, ciò che viene sperimentato dal corpo nelle quattro condizioni.
Ed ora, analizziamo il sonno profondo. Avete dormito bene durante la notte; vi siete alzati all’1:30, nel cuore della notte, per andare al bagno; poi siete tornati a letto. All’1:35 avete ripreso il sonno, e fate un sogno. Siete dunque addormentati. Che tipo di sogno? Sognate di essere diventati adulti, di aver ultimato gli studi, di aver ottenuto un lavoro prestigioso; poi vi siete sposati, vi è nato un figlio e giocate con vostro figlio. Questo è il sogno che avete fatto: lo studio, la carriera, il lavoro importante, il matrimonio, il figlio, tutto ciò vi dà una piacevole sensazione di felicità. Se doveste realizzare tutte quelle cose che avete sognato, quanto tempo ci vorrebbe? Almeno quarant’anni. Ci vogliono quarant’anni per nascere, crescere, studiare, avere un lavoro, sposarsi e avere figli.
Ad un certo punto, in sogno, vi sembra di sentire il vostro bimbo piangere, e vi svegliate. Guardate l’ora: è l’1:40. Tutto quanto è avvenuto in sogno ha avuto la durata di cinque minuti; in cinque minuti avete avuto una serie di esperienze che nella vita normale richiederebbero quarant’anni! È avvenuto nel profondo sonno.
Orbene, voi vi chiedete in che modo potete sperimentare il Divino. Se in un tempo ordinario un quarantennio di vita può nello stato di sonno essere vissuto nel giro di cinque minuti, ciò che va oltre il tempo e oltre lo stesso stato di sonno profondo si chiama Turîya (“il Quarto”, lo stato della Pura Consapevolezza).
Darshan immediato
È sufficiente un istante per vedere Dio nello stato del Turîya. È un attimo. In cinque minuti di sonno, avete vissuto una vita. Sapreste fornire una qualche risposta a ciò? No. E lo stesso vale per l’esperienza del Divino: se voleste vedere Dio “in cinque minuti”, vi sarebbe sicuramente possibile averne il darshan in un istante!
Dopo aver vissuto dieci anni in una casa, decidete di lasciarla. La chiudete bene a chiave e ve ne andate all’estero. Per dieci anni in quella casa non vi è entrato più nessuno, non vi è mai più entrata la luce. Poi, ritornate; la riaprite, accendete l’interruttore, ed ecco la luce. «Dopo dieci anni passati all’estero, — vi domandate — dieci anni in cui questa casa è rimasta al buio, come fa ad esserci tutt’a un tratto la luce?» È bastato un solo istante, il tempo di metter mano all’interruttore e di azionarlo per avere di nuovo la luce. È così: non ci vuole del tempo perché il buio scompaia. Appena la luce si accende, il buio non c’è più, senza attese di tempo.
Ci sono comunque una stagione e una ragione per questo, mentre Dio non conosce ragioni. Perciò, nel momento in cui “accendete” il vostro intelletto su Dio, Egli s’illuminerà, proprio come fa l’interruttore della luce, e la Divina Beatitudine splenderà immediatamente in voi. Eccole, allora: Somma Beatitudine (Parama Ânanda), Beatitudine dell’Assoluto (Brahma Ânanda), Beatitudine dell’Unione con Dio (Yoga Ânanda), Beatitudine dell’Uno senza secondo (Advaita Ânanda). Non si troverà mai una ragione per queste realtà, ma le potrete avere dentro di voi in un solo istante, senza bisogno di cercarle: non vi serve del tempo per questa ricerca, non occorre che vi ritiriate nella foresta. Dove pensate di ottenerle? È qui che le otterrete. Nel servizio e nell’amore.
In voi il Tutto
La pace è dentro di voi. Per percepire la pace che si trova dentro di voi, vi ritirate nella foresta. È una follia! In un luogo c’è la pace e voi andate altrove a trovarla. È dentro di voi. Che cos’è che dovete offrire? Offrite il vostro servizio al prossimo e riceverete amore. Quell’amore è splendido; è divina beatitudine, sommo benessere. Quella sola è vera felicità, ânanda.
Allora, in voi c’è tutto. A proposito di ciò, nei testi sacri si legge: «Dio permea l’Universo intero; dappertutto sono i Suoi Piedi, i Suoi Occhi, la Sua Testa, la Sua Bocca, le Sue orecchie».
Età e forza della mente
Una volta Krishna chiamò Arjuna e gli domandò: «Quanti anni hai, caro?» Ed Arjuna rispose: «Ho settant’anni, cognato!» Poi Krishna disse: «Sai quanti anni ho io? Ne ho 75. Li sto per compiere». Krishna aveva 75 anni, Arjuna 70; Dhritarâshthra ne aveva 112, Bhîshma 113.
Alla sua veneranda età, Bhîshma era al comando di un esercito. Vi par possibile che un generale dell’esercito abbia 113 anni? Era la guerra del Mahâbhârata: e l’ultracentenario Bhîshma comandava la sua armata! A 113 anni, pensate! Krishna a 75 ed Arjuna a 70!
Che motivo avevano di combattere quella battaglia? Nessuno, vista l’età fisica di quei combattenti. Tuttavia — e questo è solo un esempio — la principale ragione di quella guerra era nella forza della loro mente. Una mente potente può cambiare molte cose.
Per avere memoria
In un’altra occasione, Krishna chiese ad Arjuna: «Arjuna, in passato ti ho insegnato tutta la Gîtâ, e ti ho ripetuto molte volte quegli insegnamenti. Ciononostante, tu non li ricordi. Per quale motivo? Tu non li consideri importanti. Se tu li considerassi importanti, te li ricorderesti tutti. Invece, li hai trascurati, ed è proprio per quella ragione. Sei venuto al mondo in un susseguirsi di nascite ed Io pure sono venuto nel mondo».
«Quand’è così, Swami, Tu sai tutto della Tua venuta; perché non dovrei conoscere anch’io la mia origine?»
È l’indagine sull’origine dell’io (tarakam)
che dà stabilità alla coscienza,
senza perdere il contatto con gli stati di veglia, di sogno e di sonno profondo.
«Ma tu non ti poni in quell’indagine, non sei né cosciente né nello stato di oblio, né nello stato di veglia né in quello di sogno; tu sei in tamas, nelle tenebre dell’ignoranza», gli disse Krishna.
«Cosa, Swami?! Non ci posso credere».
«Oh, lo pensi anche tu, vero? Siamo entrambi venuti al mondo, siamo cresciuti, abbiamo mangiato e siamo andati in giro, un po’ dappertutto, e tu hai già dimenticato tutto? Oh-ho! Ti sei scordato? Allora, quando sei nato?» Ad Arjuna tornò la memoria.
Poi Krishna continuò: «Quando ti sei sposato con Subhadrâ?» Ed Arjuna si ricordò la data del matrimonio con la sorella di Krishna, avvenuto un po’ di tempo addietro, cinquant’anni prima. «Allora, Arjuna, dov’eri in dicembre-gennaio (Mâgha Suddha Châturdasi) dell’altr’anno?»
«Non lo so, Swami».
«Ti ricordi di ciò che è accaduto cinquant’anni or sono; hai ancora in mente la data del tuo matrimonio, ma se ti chiedo dov’eri nei mesi di dicembre e gennaio scorsi, mi dici che non lo sai! C’eri o non c’eri allora?»
«C’ero, Swami; ma non saprei dirti dove mi trovassi».
Ecco come cambia l’uomo!
Il figlio e il nipote di Arjuna
Quando le cose stanno in questo modo, come nel caso di Arjuna che subì molti cambiamenti nella vita, la sofferenza colpisce. Quando Arjuna ebbe notizia della morte di suo figlio Abhimanyu, cadde in uno stato di prostrazione e tristezza.
Appena venni, mio figlio era qui davanti a me
ad accogliermi. Perché non è qui ora?
Che cosa gli è capitato? (Swami riporta il pensiero al momento in cui Arjuna non sa ancora della morte di suo figlio)
Krishna era proprio al suo fianco e, pur sapendo che Abhimanyu era morto, non glielo disse. Bisogna sempre parlare al momento giusto e nella situazione più opportuna. Perciò, Krishna gli diceva: «Va bene, arriverà, arriverà». Intanto accompagnò Arjuna a casa.
Quando Arjuna seppe che suo figlio era morto, venne anche a conoscenza del fatto che era stato Krishna a mandarlo a combattere. Chiamò allora Krishna e Gli disse: «Sei un “rovina-famiglie”! Hai distrutto la mia famiglia! Tutti i Pândava sono vecchi; Draupadî è vecchia e anche Subhadrâ ha la sua età. Era il nostro unico figlio. Così la nostra razza si estingue».
Krishna accolse quelle parole con un sorriso: «E va bene, capisco il tuo stato d’angoscia; per questo parli in quel modo». «Molto bene», pensava fra sé Krishna. Dopo un po’ di tempo venne alla luce il figlio di Abhimanyu (che era morto lasciando la moglie incinta). Ma il bimbo nacque morto. Draupadî prese in braccio quel corpicino e lo mostrò ad Arjuna, il quale esclamò affranto: «Nasce un bambino ed è pure morto!» Allora mandò Sahadeva a chiamare Krishna. Sahadeva Lo accompagnò e Draupadî, che aveva posto il bimbo in un cesto, Glielo portò dicendo: «Ci hai dato questo figlio morto!»
Allora Krishna si mise a sorridere — sorrideva sempre Krishna, e qualsiasi dolore o preoccupazione ci fosse, Egli era sempre felice e sorridente — e disse: «Vedi, sorellina mia, qui ci sono gli occhi di Abhimanyu; il suo volto è in tutto simile a quello di Abhimanyu,…». Si levò allora Arjuna, con sarcasmo: «… E anche il respiro è quello di Abhimanyu!»
«Arjuna — riprese Krishna — quanto sei stupido! Tu non cerchi di comprendere la Mia natura». Bene. Poi congedò Arjuna, si sedette accanto a Draupadî e si mise a conversare con lei. Draupadî era convinta che Krishna potesse fare qualsiasi cosa. È per questo che le donne sanno essere intensamente devote e abbandonarsi completamente al Signore. E, quando una donna è moglie, trascina il marito sulla stessa strada di devozione.
Quindi, Krishna ebbe una grande considerazione per la devozione delle donne e, mentre agli uomini donò solo la saggezza, alle donne diede la facoltà di entrare negli “appartamenti privati” (antahpuram) riservati ad esse e proibiti agli uomini. A questi è concesso solo salire fino alla sala delle udienze delle corti reali. Alle devote è permesso entrare in ogni vano del palazzo e perfino incontrare la regina; cosa che agli uomini non è permesso. A loro sono posti dei limiti. Sapete perché? Perché la loro devozione è minore. Così si comportò Krishna, in forza della maggior devozione delle donne.
Risurrezione del bambino
Draupadî, dunque, aveva piena fede che Krishna avrebbe potuto ridare la vita al bimbo. Orbene, tutti — Bhîma, Arjuna, Nakula, Sahadeva e perfino Dharmarâja — a capo chino, sedevano intorno a Krishna, che conversava con loro. Essi non comprendevano assolutamente il Suo parlare, ed Arjuna si oscurò in viso, ma non proferì parola.
Alla fine di tutto, Krishna disse: «Sorellina, porta qui il bambino». Poi mettendo il corpicino nella culla, gli diede uno schiaffetto sulle natiche. Il bimbo si mise ad urlare “Ohèee!”. A quel grido, alzarono tutti la testa. Krishna diede al bambino il nome di Parîkshit, motivando la scelta col fatto che il bimbo era una prova (parîkshâ).
Arjuna andò allora ad aggrapparsi ai piedi di Krishna dicendoGli: «Salvezza e sostegno delle famiglie!» E Krishna: «Arjuna, pochi giorni fa Mi dicesti che ero un rovina-famiglie, ed ora Mi acclami quale “salvatore delle famiglie”. Due espressioni che sono uscite dalla stessa bocca».
“Sì” per coloro che dicono “sì”,
“no” per coloro che dicono “no”.
Solo dalla vostra bocca
escono insieme dei “no” e dei “sì”,
ma per Sai è sempre “Sì, Sì, Sì”.
«Prima l’una — proseguì Krishna — poi l’altra: “Vamsi nâsi” prima, “Vamsoddharaka” poi». Questo fu il sistema con cui Krishna dimostrò ad Arjuna i cambiamenti verificatisi in lui e da lui sepolti nell’oblio.
Ragioni di una morte prematura
Arjuna andò a sedersi accanto a Krishna per parlare di tutte quelle novità gioiose. Colse così l’occasione per interrogarLo a proposito della morte di suo figlio: «Swami, mio caro cognato, mio figlio era giovanissimo. Perché l’hai fatto morire e perché senza che prima io lo vedessi? Perché una morte così prematura? Non avresti potuto prolungargli la vita di un po’?» Con queste parole, Arjuna si rammaricò con Krishna.
«Pazzo che non sei altro! — lo apostrofò Krishna — Tu guardi al corpo fisico e discorri sulla giovinezza e sulla vecchiaia; ma, se guardi all’aspetto spirituale, l’età non conta. Nascere e morire sono un puro accadimento».
Vi voglio portare un esempio per questo. Tutti noi ci troviamo qui riuniti, ma siamo andati in Kashmir, che, tra l’altro, fu anche la regione ove regnò Kaikeyî. C’è stato un tempo dunque in cui siamo andati in Kashmir. Là abbiamo preso dei tessuti di lana per fare dei safari; poi siamo tornati qui. Ci siamo dimenticati di averli presi e, dopo un po’, li abbiamo chiusi in un armadio. Passano dieci anni e, al momento di fare trasloco da una casa all’altra, impacchettiamo tutte quelle stoffe, ed è allora che ritroviamo la lana del Kashmir per i safari. «Oh, che bello! Vi ho finalmente ritrovato. Me n’ero dimenticato!» Così dicendo, prendiamo le stoffe e le diamo subito a un sarto per farci confezionare i safari.
Poi, un giorno, sei invitato a un matrimonio. In un clima di gioia, tra un pasticcino e l’altro — come si dice? al buffet o al buffet? (risate) — ti metti a mangiare a destra e a sinistra e, nel piegarti giù, paat!, si strappa la giacca (risa). Entri in depressione… «O povero me! Il vestito nuovo fiammante, d’ottima qualità, uscito dal sarto proprio ieri!»
Allora Krishna disse: «Stolto! Il vestito è stato cucito ieri. È vero, sì, che è stata usata una stoffa nuova, ma proveniva da un vecchia rimanenza. Allo stesso modo, tuo figlio Abhimanyu, che hai perso in tenera età, era fatto di un tessuto nuovo ma appartenente a un vecchio stock: egli era già passato attraverso molte nascite e in questa vita gli serviva ormai solo un tempo breve. Una volta raggiunta la perfezione, il “vestito”… paat… si strappa».
Le Vie del Signore sono incomprensibili
Allora Arjuna intervenne: «Anche là ci sono dei segreti come questo, Swami?». E Krishna gli rispose con altrettanta intelligenza: «Figlio mio, la vita è un mistero; è meravigliosa, singolare, stupefacente. Non ti è dunque possibile comprenderla del tutto».
Similmente, a nessuno è dato avere una giusta comprensione del Divino: per un momento ti mostra un volto e un istante dopo ti rivela un aspetto completamente opposto e contraddittorio. Il Divino risulta essere il contrario di questo e di quello, non è né questo né quello. Sapete perché? Perché non esistono ragioni specifiche che spieghino l’operato di Dio. Nessuna ragione lo può chiarire. Non ha dunque senso pensare, discutere, speculare, arguire per un verso o l’altro sull’operato di Dio, tentando delle interpretazioni.
Dio esiste per chi ha fede
Quando c’è accordo su un’opinione, se uno dice “no” è “no” anche per l’altro, e i due son contenti così. Può accadere che, una volta fuori di qui, ad esempio per le vie del mercato, parlando di Swami, diciate ad altri che è Dio e che l’interlocutore vi chieda dove sarà mai Dio. Voi gli rispondete che è là, dentro all’âshram e che sta parlando dal palco. «Ah no! — vi dice lui — Ma quale Dio?» In questo caso, rispondetegli: «Mio caro, se per te non esiste alcun Dio, vuol dire che per te Dio non c’è! Per me invece Dio c’è! Hai tutti i diritti di negarne l’esistenza per te; ma tu chi sei per dichiarare che Dio non esiste per me? Non hai alcuna autorità per affermare questo. Quindi, la mia fede è un fatto mio personale, e tu hai la tua».
Allora, mantenetevi saldi e forti nella fede. «Se qualcuno dice “no”, quella negazione vale per coloro che la sostengono; se invece dice “sì”, vale per coloro che dicono “sì”. Nessuno ha l’autorità d’intromettersi nella fede di un altro, negandola!». Questo basterà a mettere a tacere chi vi si oppone. Non c’è bisogno di dirgli «Chiudi il becco!»; rimarrà comunque senza parole. Rimangono ancora moltissime cose da sapere, scoprire e verificare, tanti misteri: prima occorre approfondirli con cura, e dopo se ne potrà parlare.
Nomi e descrizioni di Dio
Tutte quelle undici espressioni (spiegate all’inizio) — Brahma Ânanda, Parama Sukhadam, ecc. — sono nomi di Dio; non descrivono altro.
Anche nel Gâyatrî Mantra, in cui c’è una parte che è preghiera, e un’altra che è meditazione, ci sono nove descrizioni: Aum, bhûh, bhuvah, svah, tat savitur, varenyam, bhargo, devasya. Dhîmahi (che significa “contempliamo”) introduce una formula di preghiera, dhiyo yo nah prachodayât: è un’invocazione per ottenere un buon buddhi, cioè una mente o un’intelligenza buona.
Come nel caso di tale invocazione ci sono delle descrizioni, così bisogna anche sapere che non sempre ci si trova di fronte a descrizioni. Brahma Ânanda, ad esempio, non è una descrizione di Dio, bensì semplicemente un nome creato da Vishvâmitra. Esistono quindi momenti e norme che hanno una loro ragion d’essere.
Tutti i nomi sono di Dio e, perciò, ogni uomo deve sentire qualsiasi nome attribuisca a Dio o usi per invocarLo come proprio di Dio. Per il Signore non esiste assolutamente alcun dolore; Dio non soffre, non pensa e, non pensando, non ha… pensieri!
“Io sono sempre felice”
Chi ha dei pensieri, insieme alle gioie ha anche dei dolori. Darsi pensiero per qualcosa o qualcuno si traduce in sofferenza. Ma chi non ha le preoccupazioni dettate dal pensiero è nella gioia. Dio è senza pensieri e, quindi, non ha per nulla ansie né dolori. Ecco perché Io vi dico sempre “Happy, happy!, qualunque cosa mi diciate. Parama Sukhadam, la Suprema Felicità è la Mia natura. Quando alcuni mi dicono in lacrime: «Swami, mio marito è morto!», Io rispondo «Felicissimo!» «Ma come, Swami? Ti vengo a dire che mio marito è morto e tu mi dici che sei felice?!», si lamentano (risa nell’assemblea).
Ebbene, sì. Qualunque cosa diciate, Io sono sempre e solo felice. Ecco perché, in ogni caso, vi ripeto “Happy, happy!”. Mi vien detto: «Swami, mio marito ha avuto un grave incidente», ed Io rispondo: «Very happy!», perché, in verità, Io sono sempre molto felice! Ciò che deve accadere, accade; ma sono cose che accadono solo al corpo, nella dimensione fisica.
Ineluttabilità del destino
Nascere e morire è qualcosa che di fatto accade; non è niente di speciale ed è comune a tutti. La nascita e la morte non sono due momenti speciali riservati a una sola persona; quindi, ciò che deve accadere in un determinato momento a una determinata persona si deve verificare. Ma in questi eventi nascono sentimenti di tristezza, a causa dell’attaccamento che nasce dal desiderio. È l’attaccamento che genera sia gioie sia dolori nel mondo. Non c’è bisogno di soffrire per qualcosa: tutto dipende dal Volere di Dio: è Lui che ha dato ed è Lui che toglie. Perché Egli ha dato, quando ha dato?
La data del ritorno
Su certi mezzi di trasporto, come alcuni treni, c’è la data del ritorno. Lui (Dio) ha spedito il corpo qui, ma non sapete quando partirà. Quella data è già stata decisa in anticipo e registrata su un’etichetta; quindi, il rientro avverrà entro i termini previsti. Quando c’è nascita, ci sia anche la morte: è una legge di natura. Nessuno dovrebbe in alcun modo soffrirne; anzi, in qualsiasi caso, bisogna esser contenti, gioiosi.
Ecco perché l’essenza di Dio è Beatitudine e, se Dio è in noi, non possiamo che esser sempre beati.
Abbiamo sempre amore; non facciamolo mai degenerare in odio.
(Swami chiude il discorso intonando il bhajan “Prema muditha”)
Brindâvan, Sai Ramesh Hall, 23 maggio 2000.
Corso Estivo 2000
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