18 Settembre 1985
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
La venerazione di Gaṇeśa
Nessuno conosce tutto quello che c’è da sapere.
Non c’è nessuno che non sappia proprio niente.
Sono in molti a sapere qualcosa di alcune cose.
Soltanto Sai conosce tutto di ogni cosa.
[1] Il corpo umano, composto dai cinque elementi e dotato di cinque
sensi, ha come soffio vitale il mantra pentasillabico ‘namaḥ
śivāya’ che è incluso nella sezione ‘Namakam’2 dello Yajurveda. È un
mantra di base, vale a dire che ‘può salvare se si medita su di esso’.
Ogni mantra ha un suono-seme (bījākṣara) che lo precede e gli fornisce
ulteriore potenza. Inizialmente il suono venne emanato per volontà
di Dio, perciò il suono-seme è fondamentale per il mantra e
per la sua efficacia. Akṣara3 che vuol dire ‘suono’ nonché ‘imperituro,
immutabile’ è santificato dai Veda e dai testi sacri del Tantrismo4. Il
bījākṣara o suono-seme del mantra ‘namaḥ śivāya’ è la sacra sillaba oṁ.
[2] Oṁ è il suono che deriva dalla pronuncia congiunta delle lettere
A, U, M. Ogni lettera in sé è priva di forza spirituale ma, unite insieme,
suscitano vibrazioni cariche di energia. Nel mantra suddetto,
il termine śivāya significa ‘a Śiva’, colui che conferisce buona fortuna,
ricchezza, prosperità e felicità.
I paṇḍit (studiosi) hanno commentato questa formula e l’hanno
spiegata in diversi modi. Essi hanno attribuito a ‘na’ [di namaḥ] il
significato di nandivāhana, Colui che ha per veicolo (vāhana) il toro
(nandin). Poi a ‘ma’ [di namaḥ] hanno assegnato un altro nome di
Śiva, cioè mandāramālin: ‘Colui che indossa una ghirlanda di fiori di
mandāra’5; alla sillaba śi [di śivāya] hanno attribuito il significato di
sūrya, il Sole, che quando albeggia sulla terra fa sbocciare il loto del
cuore degli esseri. Pertanto ogni studioso basandosi sulla propria
immaginazione ha dato una sua interpretazione. Tuttavia, il mantra
contiene un concetto più universale e astratto e deve essere sempre
recitato pronunciando prima il suono oṁ.
Il termine namaḥ (mi prostro, rendo omaggio) si riferisce al suono
oṁ, che ha lo stesso attributo di Śiva, essendo fonte di pace, prosperità
e successo. Il metodo per adorarlo è descritto molto bene da
Pothana6 nel ‘Bhagavata’, da lui tradotto in Telugu. Pothana parla
di ‘Chethulara Śivuni Pūjā’ (venerare Śiva con le mani). Con la parola
‘mano’ egli intende dire ‘quello che ha cinque dita’ e che rappresenta
il mantra di cinque lettere. Śiva è il Signore dei cinque elementi,
perciò Egli possiede tutto il potere e la ricchezza che questi
ultimi possono conferire all’uomo, il quale è in sé una combinazione
dei quei cinque elementi stessi.
[3] I Veda affermano:
ātman vai putranāmāsi
Oh ātman, invero Tu sei chiamato figlio7.
L’uomo replica sé stesso nel figlio. Gaṇeśa [figlio primogenito del Signore
Śiva] è quindi Śiva stesso, e in certe occasioni e per certi scopi
esprime alcuni aspetti di Śiva. Gaṇeśa significa Signore dei gaṇa, le
schiere di semidei, ed è conosciuto anche come Gaṇapati.
La testa di elefante di Gaṇeśa è simbolo di intelligenza, discernimento
e saggezza. L’elefante è sempre vigile e molto consapevole di
ciò che lo circonda, e la sua memoria è ottima. Si muove maestosamente
attraverso la fitta foresta e, lungo il percorso, lascia impresse
sul terreno le sue enormi impronte. Una sola delle sue impronte
può includere quelle lasciate da molti altri animali, sia selvatici sia
addomesticati. Il suo passaggio traccia e apre nuovi sentieri e, senza
rendersene conto, è di aiuto agli altri animali, poiché quella è la sua
natura. Gaṇeśa guida le stelle, le comunità degli uomini e le loro case;
è il Signore degli ostacoli, li provoca se è necessario, e aiuta gli
uomini a superarli se con quella grazia può promuovere il benessere
dei devoti.
C’è anche una configurazione astronomica che convalida la festività
dedicata a Gaṇeśa che si celebra nel quarto giorno della metà chiara
del mese di bhādrapada (agosto-settembre): proprio in quella notte
appare chiaramente visibile nel cielo una costellazione che ha la
forma di una testa d’elefante.
Gaṇeśa è il simbolo di buddhi (intelligenza) e siddhi (realizzazione).
Il saggio Vyāsa si rivolse a lui pregandolo di scrivere il Mahābhārata
intanto che egli componeva le centinaia di migliaia di versi.
Gaṇeśa fu subito d’accordo e, non tollerando alcun ritardo neppure
per procurarsi uno strumento con cui scrivere, spezzò la sua zanna
affilata e così fu pronto a cominciare il lavoro!
[4] Gaṇeśa può insegnare molte lezioni all’uomo, ed è il motivo per
cui viene adorato da persone di tutte le età e di ogni estrazione sociale.
Prendete per esempio la questione del cibo: il grande Santo
Tyāgarāja offriva a Gaṇapati in modo molto affettuoso del cibo dolce
sattvico, come la polpa della noce di cocco, diversi tipi di frutta e
dei modak (piccolo dolce di forma tonda). Di solito l’elefante si nutre
di erba, di canna da zucchero, di germogli di bambù, nonché di ra-
moscelli e foglie dell’albero banyan. I devoti, durante i loro riti di
venerazione, offrono a Gaṇeśa foglie, steli d’erba e fiori raccolti nei
campi e nelle valli. Inoltre Gaṇeśa, dalla testa di elefante, viene adorato
come fonte di amore, fede, intelligenza, guida e grazia.
Considerate ora un altro ruolo assegnato a Gaṇeśa. Quando Śiva è
immerso nell’estasi suprema che manifesta con la danza cosmica di
Naṭarāja (il Re dei danzatori), Gaṇeśa, che è il Signore del ritmo e
della melodia musicale, guida gli altri Dei e batte il tempo con il
tamburo (mṛdaṅga). Non c’è quindi da stupirsi che gli Dei siano felici
se i riti di adorazione vengano offerti a Gaṇeśa ancor prima che
essi stessi siano propiziati.
[5] L’uomo è vincolato da tre tendenze: la prima è kāma (il desiderio,
la brama di possesso). Se tale brama non viene soddisfatta, allora
krodha (l’ira) solleva la testa. Quando invece il desiderio viene esaudito
e la cosa tanto desiderata è ottenuta, l’uomo viene catturato
dalla terza tendenza: lobha, la cupidigia. Se invece il desiderio è utile
e benefico, il Divino riverserà la Sua grazia.
Gaṇeśa non ha desideri, ira, né cupidigia o avidità. La Sua grazia è
disponibile per tutti coloro che siano alla ricerca del bene e perseguano
propositi divini. Considerate il veicolo che Egli ha scelto per
sé: il topo, una creatura che provoca la propria rovina a causa delle
vāsanā8, perché è attratto dall’odore delle cose. Anche gli uomini sono
vittime di queste vāsanā, predilezioni e attrazioni impresse nella
loro mente; ma Gaṇeśa soffoca e sopprime tali inclinazioni che
sviano l’uomo e gli causano molte sventure. Poiché il topo ha avuto
l’onore di essere il veicolo di Gaṇeśa, condivide la venerazione che
viene a Lui offerta. L’associazione con gli Dei, come veicoli, ornamenti,
accessori o come loro servitori, conferisce agli oggetti, agli
animali e agli uomini uno stato di sacralità. Infatti elefanti, leoni,
aquile, serpenti e molti altri furono resi divini.
[6] Oggi è la festività dedicata al Signore dalla testa di elefante. Poiché
Gaṇeśa è a capo degli Dei, quando questi vengono invocati e
adorati, la ricorrenza odierna presiede alla lunga serie di festività
dedicate ad altre forme del Divino, come Navarātrī9, Dīpāvalī10,
Saṅkrānti11 e Śivarātrī. In questo giorno è vostro dovere contemplare
l’Assoluto Universale e la Verità eterna che sono simboleggiati da
Gaṇeśa. Dovete quindi venerarlo con purezza e fede e pregarlo per
ottenere la Sua grazia, al fine di prevenire gli errori e gli ostacoli per
progredire sino a raggiungere la meta suprema.
Praśānti Nilayam, giorno di Gaṇeśa caturthī, 18.9.1985