5 Marzo 1973 – Significato di Śiva

5 Marzo 1973

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Significato di Śiva

[1] La ricorrenza di śivarātrī cade ogni mese nella quattordicesima
notte di luna calante e precede la notte nella quale la luna, la deità
che presiede alla mente, scompare per diventare una non-entità
senza più alcuna influenza sulle agitazioni mentali. Nel mese di
magha (febbraio-marzo), la quattordicesima notte viene detta ‘la
grande notte di Śiva’ perché è sacra anche per un altro motivo: è il
momento in cui Śiva assume la forma del liṅgam1 per il bene degli
aspiranti spirituali. Śiva è la Forma divina da adorare per acquisire
la suprema saggezza (jñāna). I Veda esortano: ‘Pregate Śiva per
ottenere l’illuminazione attraverso la saggezza’.
Pertanto non sottovalutate questa giornata così sacra, non alterate
le discipline che i saggi hanno prescritto per la sua celebrazione,
come il digiuno, la veglia e l’ininterrotta recitazione del Nome di
Dio! Non fatene un rituale ripetitivo, un’occasione per incontrare
gli amici e fare baldoria o per creare delle competizioni fra voi. In
questo giorno e in questa notte, contemplate l’ātmaliṅgam2, il jyotirliṅgam3,
e convincetevi che Śiva è in ognuno di voi. Fate in modo
che tale visione illumini la vostra coscienza interiore.
[2] Per proteggere il raccolto è necessaria una recinzione, ma se
non ci sono colture in crescita, perché sciupare tempo e denaro per
erigerla? L’arancia è ricoperta da una buccia di sapore sgradevole
che protegge il frutto da una consumazione troppo precoce. I rituali
esteriori sono prescritti per tutelare il messaggio interiore affinché
non venga manomesso o alterato. Anche śivarātrī, come tutte
le altre ricorrenze sacre del calendario indù e di altre religioni,
contempla numerosi riti esteriori e un nucleo profondo di significati
interiori. La natura umana, tuttavia, predilige la via più facile
della ritualità esteriore a quella della disciplina interiore e dell’esperienza
diretta.
Visitare i templi di Śiva, predisporre l’adorazione degli Śiva-liṅgam
chiedendo l’intervento dei preti bramini, versare brocche intere di
acqua santa sugli idoli consacrati, fare digiuni e veglie, sono tutte
attività che vengono praticate in questo giorno, ma sono irrilevanti
rispetto al vero scopo della festività. Per osservare questi riti e
voti, non c’è bisogno di attendere un anno o di consultare gli
astrologi e gli almanacchi. Se l’uomo mangia quattro volte al giorno
per tenere il corpo in condizioni efficienti, è forse troppo chie-
dergli di alimentare la mente con buoni pensieri e buone azioni
almeno una volta al giorno? Anche la mente ha bisogno di cibo
pulito e nutriente.
[3] Īśvara, uno dei nomi di Śiva, indica che Egli possiede tutta la
gloria propria della Divinità. Śaṅkara, un altro dei Suoi nomi, significa
che Egli, con la Sua grazia, dona la massima beatitudine.
Śiva è la personificazione della beatitudine; infatti la danza tāṇḍava4,
da cui Egli trae immensa gioia, ha il cosmo intero come palcoscenico.
Dedicare un solo giorno su 365 per l’adorazione di tale
Onnipresenza Universale è un insulto alla Sua maestà e al Suo mistero.
Consideriamo il significato della Forma che Śiva ha assunto per
essere adorato dagli uomini. Nella gola Egli ha il veleno hālahāla
che può distruggere in un attimo ogni forma di vita. Sulla testa ha
il fiume Gange le cui acque possono curare qualsiasi malattia in
questo mondo e nell’altro. Sulla fronte ha l’occhio di fuoco e sulla
testa la rinfrescante luna. Ai polsi, alle caviglie, sulle spalle e attorno
al collo porta dei cobra mortali che vivono di un soffio
d’aria.
Śiva abita nei cimiteri e nei crematori che vengono chiamati appunto
rudrabhūmi, terra di Rudra5 o Śiva. Non si tratta di un luogo
di paura, ma di un’area di buon auspicio perché tutti devono concludere
il proprio viaggio, al termine della vita attuale o di una
successiva. Śiva v’insegna che la morte non si può evitare né cacciare
via: deve essere affrontata con gioia e con coraggio.
[4] Śiva è rappresentato con la ciotola dell’elemosina, con cui insegna
che la rinuncia, il distacco, l’indifferenza alla buona o alla cattiva
sorte sono le vie dirette per raggiungerlo. Śiva viene chiamato
mṛtyuṅjaya, vincitore della morte, nonché kāmāri, distruttore del
desiderio; questi due nomi indicano che chi distrugge il desiderio
può vincere la morte, poiché il desiderio induce all’azione, l’azione
genera le conseguenze, le conseguenze determinano i legami,
da questi ultimi deriva la nascita, e la nascita implica la morte.
[5] Īśvara viene rappresentato con la forma del liṅgam. Il termine
liṅgam deriva dalla radice sanscrita ‘li’ che significa ‘fondere’: è la
forma nella quale tutte le forme si fondono. Śiva è il Dio che benedice
gli esseri concedendo il dono più ambito in tutto l’universo: il
traguardo oltre la morte per il quale si deve lottare e che Śiva può
accordare. Innanzi tutto realizzate il Divino in voi poi, anche se
rimarrete coinvolti nel mondo materiale, nulla di male potrà accadervi
perché saprete riconoscere che il mondo oggettivo non è altro
che il corpo di Dio. Se, invece, v’immergete prima nel mondo e
poi cercate di scoprire Dio, riuscirete a vedere soltanto il mondo
materiale.
Potrete dirigere i vostri sforzi spirituali verso una di queste due
direzioni: seguite i comandamenti di Dio ed Egli sarà lieto di elevarvi,
oppure seguite la via dell’indagine, scoprite dove Egli risiede
e realizzatelo lì. Potrete seguire l’una o l’altra via, ma raggiungerlo
è l’inevitabile dovere dell’uomo.
[6] Śiva significa cordialità, buon auspicio, fortuna; Egli è sempre
amabile e di buon augurio. Per tale motivo, davanti ai nomi di Śiva,
Śaṅkara, Īśvara non si mette mai il titolo Śrī che indica appunto
tali qualità. Si antepone l’attributo Śrī ai nomi degli avatār per-
ché hanno assunto un corpo perituro per uno scopo specifico, e
devono essere distinti mediante quel titolo dagli altri esseri umani;
Śiva invece è sempre amorevole e propizio, quindi tale termine
è superfluo.
Śiva viene adorato anche come ‘Maestro dei maestri’, ovvero come
Dakṣiṇāmūrti6.
La Forma stessa di Śiva dà una grande lezione di tolleranza e di
sopportazione. Egli tiene il veleno hālahāla in gola e regge sulla testa
la luna che è gradita a tutti; è una lezione per l’uomo affinché
eviti le tendenze che possano essere dannose per gli altri e usi a
loro vantaggio le attitudini benefiche che possiede. Se uno utilizza
i talenti a proprio vantaggio e le tendenze malvagie per ostacolare
gli altri, imbocca la strada che lo condurrà alla rovina.
L’uomo è intrinsecamente divino e deve dimostrare con pensieri,
parole e azioni gli attributi divini di amore, tolleranza, compassione,
umanità. Dio è Verità; anche l’uomo deve vivere nella Verità.
Dio è Amore; anche l’uomo deve vivere nell’Amore e astenersi
dall’ira. Controllate l’odio attraverso l’amore e dominate l’ira mediante
una dolce tolleranza.
[7] Molti fanno delle negoziazioni con Dio e gli offrono dei doni o
del denaro purché Egli conceda la Sua grazia; chi ritiene di poter
rabbonire Dio donandogli una noce di cocco o qualche monetina,
mi domando che tipo di Dio abbia in mente! Il suo concetto di Dio
è così meschino e spregevole? Chi pensa di vedere esauditi i propri
desideri mediante la ricchezza non merita l’appellativo di ‘devoto’.
Anche chi è favorevole a un compenso in denaro per conseguire il
progresso spirituale o per ottenere il favore divino va condannato.
Ecco perché la Bhagavad Gītā dichiara che Dio sarà compiaciuto
dell’offerta di una foglia, un fiore, un frutto o anche di una sola
goccia d’acqua. Ma anche queste quattro cose sono puramente
materiali: la Gītā non intende che dobbiate cogliere una foglia, un
fiore o un frutto da qualche pianta e posarli davanti a Dio, né vi
chiede di portare acqua da un pozzo, da un fiume o da una fontanella.
[8] La ‘foglia’ è il vostro corpo che, proprio come una foglia, germoglia
e verdeggia, appassisce e alla fine si stacca dal ramo. Il
‘fiore’ è il cuore libero dai parassiti della concupiscenza, dell’ira,
dell’avidità, dell’attaccamento, dell’orgoglio, dell’odio. Il ‘frutto’ è
la mente, la conseguenza dei suoi desideri, che devono essere dedicati
a Dio. ‘L’acqua’ sono le lacrime di chi è nella beatitudine
estatica della contemplazione della gloria di Dio.
Offrire queste quattro cose è il vero atto di resa totale o śaranāgati:
l’abbandono totale e assoluto alla Volontà di Dio. L’offerta in sé di
foglie, fiori, frutti o dell’acqua di un fiume è al massimo una maniera
per aiutare una pianta, un albero o un fiume a guadagnarsi
un piccolo merito.
Alcuni dichiarano con leggerezza di aver arreso a Dio il corpo, la
mente, l’intelletto e tutto di sé. Costoro non hanno il controllo sulla
loro mente né sulle emozioni e passioni di cui la mente è piena,
nessuna padronanza della propria ragione, non sono neppure in
grado di governare i loro corpi. È dunque ridicolo che proclamino
di averli offerti a Dio; come possono donargli ciò che non appartiene
loro? Con quale diritto? E come si può accettare in dono
qualcosa che non appartiene al donatore?
A dire il vero, non avete bisogno di arrendere niente! Amate tutti
gli esseri: ciò è sufficiente. Amate senza attendervi nulla in cambio,
amate per Amore, perché la vostra vera natura è Amore, perché
è la forma di adorazione che conoscete e gradite.
Se gli altri sono felici, siate felici. Se alcuni sono in difficoltà, cercate
di alleviare i loro problemi al meglio delle vostre capacità.
Praticate l’Amore attraverso il servizio disinteressato. In tal modo
realizzerete l’Unità e vi libererete dall’ego che è molto dannoso.

Bṛndavan, 05.03.1973