25 Ottobre 1973 – Festa della Luce

25 Ottobre 1973

Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba

Festa della Luce

[1] Alcuni giorni dell’anno sono indicati come festività religiose
nei calendari di tutte le comunità, e sono distinti per la maggiore
attenzione dedicata all’adorazione della Divinità, alla propiziazione
dei defunti, alle preghiere rivolte alle forze della natura, ecc.
Sono occasioni per rammentare all’uomo il Dio esteriore e il Dio
interiore.
Queste ricorrenze sacre sono prescritte e osservate anche in India
insieme ad altri giorni festivi. Dīpāvali, che ricorre oggi, significa
‘ghirlanda di luci’ ed è il modo più caratteristico in cui tutti rievocano
questa festività.
Le luci e le luminarie sono un segno di vittoria, di trionfo su un
nemico o su un certo impedimento a una vita felice; sono un
modo per esprimere gioia e per attrarre l’attenzione degli altri sul
raggiungimento di un’inattesa felicità. Numerose feste nelle quali
le luminarie svolgono una parte importante vengono celebrate anche
tra i parsi, i cristiani e i musulmani, e in paesi quali la Malesia,
il Nepal, il Giappone e in tanti altri ancora.
Ci sono innumerevoli leggende che cercano di spiegare l’origine
di Dīpāvali. Nell’India settentrionale c’è la credenza che sia il giorno
dell’incoronazione di Rāma come imperatore, dopo il Suo ritorno
dall’esilio. Nel Kerala si crede che questo sia il giorno in cui
l’imperatore Bali, a cui era stato concesso di visitare il suo ex regno
solo un giorno all’anno, venga accolto con gratitudine dal suo
popolo. Il Signore lo aveva schiacciato sotto i piedi e mandato giù
negli inferi per punirlo dei suoi piani egoistici di espansione e
conquista, ma Egli s’intenerì un po’ quando Bali implorò la Sua
misericordia; così gli permise di tornare sulla terra un solo giorno
all’anno e in quel giorno i suoi sudditi lo festeggiano con luci e
fuochi d’artificio.
[2] La leggenda più diffusa si riferisce al demone Naraka1 che
venne annientato in battaglia dal Signore Kṛṣṇa, assistito dalla
moglie Satyabhāmā o Satya2. La storia narra che Naraka era figlio
della Madre Terra, la quale chiese al Signore una grazia: che quel
giorno fosse osservato, in sua memoria, come un giorno di luce e
gioia e che quella gioia fosse condivisa da tutti.
Perciò questa sera in India si accenderanno centinaia di piccole
lampade disposte in fila davanti e dentro ogni casa; poche, però,
saranno le lampade che verranno accese nel cuore per vincere la
fitta oscurità che vi regna.
Dīpāvali è il giorno in cui si scartano i vestiti vecchi per indossarne
dei nuovi, si pulisce a fondo la casa e tutto il suo circondario, la si
rinnova perché appaia bella e fresca, si dispongono fiori in tutte le
stanze e nel cortile componendo dei bei disegni, e ogni porta viene
ingentilita con addobbi di foglie verdi. Ma pur facendo tutto ciò,
bisogna essere attenti a eliminare i pregiudizi logori, a mettere in
atto nuove attitudini d’amore e di mutuo rispetto, a rinnovare il
proprio atteggiamento verso amici e parenti, verso i fratelli e le sorelle
di ogni credo e casta, e ad appendere i festoni dell’amicizia e
della fraternità sopra la porta del proprio cuore. Tutto ciò renderà
la festa veramente significativa e proficua, evitando che diventi
un’occasione per esibire solo sfarzo e sterile ilarità.
[3] Chi è esattamente ‘naraka-asura’, il demone Naraka? È descritto
come un tiranno senza rispetto per i santi e gli anziani, affetto da
una tremenda avidità, dedito al saccheggio smisurato; rapiva centinaia
di principesse e fanciulle per rinchiuderle in prigione senza
rimorso, e mai si pentì di alcun crimine o peccato commesso.
Quando gli uomini buoni di tutto il mondo rivolsero il loro appello
d’aiuto al Signore Kṛṣṇa, Egli invase il regno del demone, assediò
la capitale, sgominò le sue forze e permise alla Sua regina,
Satya, di ucciderlo sul campo di battaglia.
Questa leggenda contiene un significato recondito molto profondo
che non dovete trascurare. Naraka è un asura, un demone; la sua
città è prākjyotiṣapura: prāk significa ‘precedente’, jyoti vuol dire
‘luce’ e ṣa sta per ‘dimenticare, ignorare’. Dunque quel nome significa
‘la città di chi ha trascurato l’antica luce’, ovvero ‘la città di
chi ignora lo splendore dell’ātma’. Non c’è da stupirsi quindi che
costoro siano demoni pieni di lussuria, odio, avidità, invidia ed
egoismo, talmente immersi nei loro peccati che il Signore Kṛṣṇa
non concesse loro neppure l’onore di essere uccisi dalle Sue mani.
Egli ordinò a Satya di annientarli. Sì, un’ignoranza così radicata e
profonda può essere distrutta solo dalla spada di Satya, la Verità.
[4] L’egoismo è della terra, non del cielo: è terreno, non celeste.
Pertanto, Naraka è il figlio della terra: nara significa ‘uomo’, colui
che conosce manas, la propria mente, che pratica manana, la riflessione
e la meditazione su ciò che è stato udito e appreso; ma naraka
vuol dire ‘inferno’ ed è il nome appropriato per chi sia convinto
di essere il corpo e s’impegni a soddisfare ogni sua esigenza e
pretesa.
Se l’uomo sviluppa la forza fisica, il potere economico, la prontezza
mentale, l’erudizione intellettuale e l’autorità politica, ma non
cresce in ricchezza spirituale, diventa un pericolo per la società e
una calamità per sé stesso, ovvero un naraka per i suoi vicini e parenti;
costui vede solo i molti, non l’Uno, viene attratto dalla molteplicità
sfavillante e percorre il sentiero che declina verso la perdizione.
Gli asura hanno anche un altro nome in sanscrito: naktancara, ovvero
‘quelli che si muovono nella notte’, il che descrive bene la loro
pietosa condizione. Non hanno una luce che li guidi, non si
rendono conto di trovarsi nell’oscurità, non cercano né invocano la
luce perché non ne sono consapevoli. Il loro intelletto è schiavo
delle passioni e dei sensi, invece di imporsi come loro padrone.
Quando finalmente la verità si rivela ai loro occhi e li travolge, allora
essi riconoscono l’Uno e si fondono felicemente in ‘Quello’.
Il lume, la luce, non simboleggia soltanto la conoscenza della Verità:
è anche il simbolo dell’Uno, dell’ātma che risplende nella molteplicità
e attraverso di essa. Proprio come da una lampada se ne
possono accendere altre mille, come l’Uno è sempre luminoso an-
che se a migliaia traggono luce dal Suo splendore, così l’ātma illumina
le anime individuali e brilla in esse e attraverso di esse senza
subire alcuna riduzione del suo fulgore. L’ātma è la Causa, tutto il
resto sono gli effetti.
[5] Naraka voleva agire liberamente secondo quanto gli dettavano
le sue emozioni e passioni; ma la parola sanscrita ‘svecchā’ che sta
a indicare questo genere di licenza ha anche un altro significato
più profondo: sva-icchā significa il desiderio di fusione, di riassorbire
le scintille emanate, le onde che giocano sulla superficie [dell’Oceano].
Le Upaniṣad ricordano all’uomo che deve procedere nella giungla
della vita come il re degli animali, il leone, e non come una pecora
attanagliata dal panico e vergognosa di sollevare il capo. Affrontate
i sei nemici che vi rodono ferocemente il cuore: lussuria, ira, attaccamento,
orgoglio, odio e avidità, e siate uomini, nara, non naraka
che s’inchinano davanti a quei nemici e cercano di propiziarseli
cedendo a tutte le loro pretese. Questa è la lezione che Dīpāvali
insegna.
La preghiera vedica afferma:
tamaso mā jyotir gamaya
conducimi dall’oscurità alla luce
Conducimi dalla cecità dell’ignoranza alla visione della Verità!
Purificate la mente, e la Verità vi apparirà riflessa; questo non è
poi così difficile come certa gente immagina.
La piccola formica può percorrere centinaia di miglia se solo si decide
a muovere le sue zampette. Poi la fede e la tenacia permetteranno
di completare il viaggio. Anche un aeroplano che vola più
veloce del suono rimarrà fermo dove si trova se non si alza dalla
pista.
[6] In primo luogo, ognuno deve decidere per cosa valga la pena
di vivere e di impegnarsi; perciò deve confrontarsi con i più anziani
che hanno percorso la stessa strada, e assaporare la beatitudine
della realizzazione che le loro vite esprimono; quindi, ispirato
dal loro esempio, deve praticare ciò che essi prescrivono con fiducia
incrollabile.
Se l’uomo non mette a disposizione i risultati da lui ottenuti per il
bene del prossimo, diventa un naraka-asura, un demone infernale.
Se, in una sfrenata corsa alla gloria, spende miliardi per raggiungere
la luna e raccogliere frammenti di roccia dalla sua superficie,
invece di nutrire milioni di persone che stanno morendo di fame e
di promuovere la prosperità delle nazioni arretrate, sta solo condannando
sé stesso. Anche la cosa migliore può essere male utilizzata!
Rāvana, Śiśupāla, Kaṁsa e altri personaggi demoniaci menzionati
nei Purāṇa e nei poemi epici avevano una grande erudizione,
enormi possibilità economiche e militari e immensi poteri yogici
occulti, ottenuti con anni di austerità e di vita disciplinata, ma essi
non riuscirono a ottenere una qualità: sopprimere l’ego; così divennero
troppo ostinati, troppo nocivi e pericolosi per permettere
loro di vivere e prosperare. La lezione che le storie di Naraka e di
Bali ci insegnano è che l’uomo deve dominare l’ego se vuole progredire
nell’arte del vivere con successo.
[7] Dīpāvali è anche il giorno dedicato alla dea della ricchezza,
Dhanalakṣmī. In diversi stati dell’India si onora questo giorno
come la festa di Dhanalakṣmī.
Ma la ricchezza, se capita d’incontrarla sulla propria strada, va riverita
come qualcosa ricevuto in affidamento, da usarsi per risolvere
i bisogni della società, non per la propria esaltazione. Chi la
impiega per farne un’esibizione, si rende ridicolo. Come possono
ricchezza e cultura risplendere se non alla luce della virtù e dell’umiltà?
La ricchezza può andare o venire, la cultura può essere
acquisita oppure no, perfino la gioia può andare e venire ma,
qualsiasi cosa accada, l’uomo deve rimanere imperturbato senza
deviare dalla via che ha scelto per raggiungere l’obiettivo.
[8] Camminando per le vie di Benares, un mercante venne improvvisamente
avvicinato da due sorelle che litigavano freneticamente
per stabilire chi delle due fosse più bella; altre non erano
che Danalakṣmī, la dea della ricchezza, e la sua famosa sorella Daridralakṣmī,
la dea della povertà. Esse fermarono il mercante e lo
costrinsero a fare da giudice e a dichiarare chi fosse la più bella.
L’uomo aveva paura di dare la vittoria a Danalakṣmī, perché la
dea della povertà avrebbe potuto infliggergli la sua ‘grazia’; allo
stesso modo temeva di dichiarare che Daridralakṣmī era la più
bella, perché la sorella Danalakṣmī avrebbe potuto privarlo dei
suoi favori.
Allora per salvarsi, concepì uno stratagemma: chiese alle due sorelle
di fare qualche passo avanti e indietro, di fronte a lui e rimase
in silenzio a osservare i loro movimenti; poi le chiamò vicino a sé
per esprimere il suo giudizio: “Danalakṣmī è la più bella quando
si avvicina a me; Daridralakṣmī è la più bella quando si allontana
da me. Come posso quindi emettere un giudizio preciso?”
[9] Quella fu una risposta arguta, concepita per sfuggire a una punizione,
ma voi non dovete cambiare il volto della verità per compiacere
la gente; dite quello che pensate, agite secondo le parole
che pronunciate: quella è la procedura più sicura, più facile e corretta.
Così deve comportarsi un uomo che si rispetti. Nulla è più
giusto della verità!
Non ingannate il Dio che è in voi, e non lasciatevi condurre verso
il male per paura o per avidità. Andate avanti diritti, senza deviare
verso la menzogna o il sotterfugio. Non lasciatevi ammaliare
dal fascino dei nomi e delle forme. Cercate l’ātma con precisa determinazione!
Questo è il messaggio che vi trasmetto oggi in occasione della festa
della Luce.

Praśānti Nilayam, 25.10.1973