Discorsi Divini
5 Aprile 1962 – Il progresso interiore
5 Aprile 1962
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Il progresso interiore
[1] Il nuovo anno che avete accolto oggi con l’uscita di quello vecchio ha un nome fausto: Subhakrith. L’aver preparato oggi questa festa in onore del santo Tyāgarāja1 è davvero un modo propizio per salutare questo nuovo anno dal nome così favorevole. Mi congratulo con voi. Vengo sovente ad inaugurare questa festa poiché ritengo che faccia parte del proposito per cui mi sono incarnato. Posso dirvi che oggi sono arrivato proprio dalla regione in cui Tyāgarāja ha trascorso la sua esistenza. Noto, però, che in questa città santa di Tirupati2 non tutti sono colmi di devozione verso la Divinità che ne fece la Sua dimora, ossia il Signore Shrinivāsa. Qui la maggior parte della gente vive grazie alla generosità, alle ‘proprietà’ ed alla ‘carità’ del Signore; infatti, le entrate del tempio sono utilizzate per finanziare scuole superiori, ospedali ed altro. Questo significa rendere felici e serene le vite di molte migliaia di persone. Non incolpo la gente perché vive delle entrate del Signore, in quanto per cosa potrebbe Egli desiderarle se non per i bisognosi e gli affamati? Lasciate però che vi metta in guardia: se si mangia eccessivamente, subentreranno dei problemi. Mangiate quanto meritate per il lavoro che avete svolto, per la fame che consegue allo sforzo compiuto per una buona causa. Quale fatica vi dà il diritto di usufruire delle proprietà di questo tempio? Quale tipo di sforzo approva il Signore? Unicamente fatiche e sforzi spirituali vi possono autorizzare a questa sacra condivisione; solo la meditazione e la ripetizione del Nome pregne del palpito della devozione!
[2] La cultura vera dell’India è una struttura edificata su quattro pilastri: Satya, Dharma, Shānti e Prema (Verità, Rettitudine, Pace ed Amore), e voi dovete esserne ben consapevoli; se lo siete, non vi lascerete attrarre da altre culture costruite su fondamenta meno salde. Una cultura che deve essere protetta con le bombe non può sostenere che l’amore sia uno dei pilastri su cui è eretta. Bhārat [nome antico dell’India] è una terra dove da millenni la gente prega e s’impegna a favore della pace e della felicità di tutto il genere umano. Gli Indiani non hanno mai pregato per avere successo nella corsa perversa allo sterminio di massa. Non subite senza discernimento le critiche che scagliano contro di voi, cioè di essere dei barbari ignoranti che venerano ceppi e pietre. Adorare degli idoli non significa essere dei selvaggi, assolutamente no, anzi, è un rito significativo come l’applicazione del punto rosso vermiglio di kumkum sulla fronte della sposa. L’idolo è venerato come la Forma del Signore. Colui che pervade ogni cosa e luogo è invocato e visto nell’idolo, ed avvicinato con riverenza dalla mente ripulita, ansiosa di annullarsi nell’Eterno ed Universale. Tale attitudine è detta prapatti: resa totale per raggiungere il coronamento dell’esistenza. Senza quest’attitudine, il culto di adorazione risulterà superficiale e vano. Non serve che ora, mentre mi state ascoltando, decidiate di coltivare fede e costanza, se poi non mettete in pratica questa risoluzione appena vi allontanate. La devozione non si misura da segni esteriori quali il pianto e l’esaltazione; è una rivoluzione interiore, una trasformazione di tutti i valori e le vedute. Forse avrete sentito la storia di quella donna che, durante una rappresentazione tratta dai Purāna, piangeva profusamente di gioia, almeno all’apparenza. Il bramino quel giorno fu felicissimo poiché credeva di essere riuscito, con la sua toccante esposizione, ad evocare la risposta di almeno un’anima contrita. Alla fine del programma, andò a congratularsi con l’anziana signora per la sua devozione e le offrì l’ambito primo sorso d’acqua consacrata, come riconoscimento per la sua fede e per il suo impegno spirituale. La donna, però, negò tutte le ipotesi di devozione e disse: “Io non so neanche cosa sia quella cosa che chiamate devozione, fede o disciplina spirituale. Ti dirò perché piangevo: quel grosso laccio nero col quale hai legato le foglie di palma del libro mi ha ricordato la cintura che portava il mio defunto marito. Tanto, tanto tempo fa, egli indossava una cintura nera.” I segni unicamente esteriori possono trarre in inganno l’osservatore, ma non il Signore che è il Testimone onnipresente e sempre vigile. La devozione alimenterà l’amore, poiché nasce dall’amore stesso.
[3] In questo momento, il Paese è pieno di fazioni e gruppi rivali che non uniscono le loro forze per dare il meglio delle loro capacità ed abilità. Ecco perché è diventato necessario chiedere l’aiuto di altre nazioni e farsi prestare dei fondi gravandoci di interessi da pagare. Non c’è cooperazione reciproca e manca la volontà di sacrificare i propri interessi per il bene della comunità, del Paese o dell’umanità in generale. Ogni villaggio è spaccato da fazioni antagoniste. Vi racconterò cosa è accaduto in un villaggio del genere. Una parte del villaggio si era preparata per mettere in scena un episodio del Rāmāyana in cui la città di Lankā veniva messa a ferro e fuoco. L’altra parte del villaggio aveva deciso di inscenare la storia del re Harishchandra, ma per il ruolo della regina Chandramati non c’era un’attrice e quindi dovettero scegliere un’interprete dell’altro gruppo. Gli atti del dramma su Harishchandra scorrevano bene, uno dopo l’altro, fino al momento in cui suo figlio, il principe, moriva per il morso di un serpente. A quel punto la ‘madre’ si rifiutò di piangere perché il ‘figlio’ apparteneva al gruppo opposto! Il ‘re’ allora si vendicò picchiando la regina per essere così insensibile. Lo spettacolo a quel punto prese velocemente un’altra piega, quella dell’odio e della faziosità. Di conseguenza, ‘Hanumān’, che apparteneva al gruppo dello spettacolo su Lankā, decise di saltare sul palco nel suo ruolo, cioè con la punta della coda in fiamme, e scatenò davvero un incendio nel teatro, con il sommo piacere dei suoi sostenitori e la costernazione dei suoi rivali! È meglio che si metta in scena o la storia del re Harishchandra o quella dell’incendio di Lankā; se le portate insieme sullo stesso palco, finirà tutto in un olocausto. Sarebbe meglio preferire quella di Harishchandra ed evitare di scherzare col fuoco.
Insediate nel tempio del vostro cuore la Verità: essa genererà la buona attitudine della fraternità fra tutti gli uomini.
[4] Bene, vedo che l’elettricità è tornata e voi siete tutti molto contenti che il guasto sia stato riparato così in fretta. So quanto avete desiderato che l’illuminazione di questo padiglione fosse ripristinata velocemente e come vi abbia amareggiato ed intristito sedervi sotto quelle improvvisate luci fioche a cherosene. Voglio però che desideriate con altrettanto trasporto anche l’illuminazione del vostro mondo interiore ed il ripristino di quella corrente che getti luce sui recessi più bui delle vostre menti. Questo si chiama devozione: il forte desiderio di luce, d’illuminazione. Gli uomini incolpano Dio delle loro malattie che sono in realtà causate dalla loro ignoranza o bizzarria. In verità, è loro la colpa per le tribolazioni che patiscono: il dolore è causato solo dall’ignoranza. Prendete ad esempio le malattie fisiche con le loro conseguenti sofferenze; la maggior parte è dovuta ad abitudini alimentari sbagliate ed a un’eccessiva assunzione di cibo. Un consumo moderato di alimenti dona grande benessere. Il cibo deve essere pulito, puro ed ottenuto attraverso mezzi onesti e la forza che se ne trae deve essere indirizzata unicamente verso fini sacri. Solo allora la vita sarà degna d’essere vissuta. Ricordate che Tyāgarāja osservò sempre scrupolosamente tali regole. Non mangiò mai fuori casa né consumò cibo che non fosse consacrato. Molti lo consideravano un folle presuntuoso che osservava regole inutili, ma ci sono influssi sottili che il cibo assorbe dalla persona che lo maneggia e lo cucina, e tali influssi sono poi assimilati da chi lo consuma. Il cibo è la base per la formazione del carattere, e la condizione della mente è influenzata da quella del corpo. Vi racconterò un incidente accaduto otto anni fa. A Badrinath viveva un grande yogi di nome Hamsarāj, sempre immerso nel canto della gloria di Dio. Hamsarāj aveva un discepolo altrettanto sincero e zelante. Accadde che per alcune notti il giovane fosse tormentato da un sogno che non gli dava pace. Nel sogno vedeva una graziosa fanciulla di sedici anni che piangeva disperatamente e gridava angosciata: “Non c’è nessuno che mi possa aiutare?” Il discepolo era talmente turbato da questo strano sogno che non riusciva più a rimuovere dalla mente quella figura così afflitta ed il suo grido di disperazione; così decise di confidare tutto al suo Maestro. Hamsarāj, ve lo garantisco, era un vero ‘cigno del Paradiso’ [Hamsa signifi ca cigno], quell’uccello capace di separare l’acqua dal latte. Con il suo discernimento analizzò la situazione ed arrivò a scoprire la causa della brutta esperienza del suo discepolo. Interrogò quindi il giovane: “Cos’hai fatto il giorno prima del sogno? Dove sei andato? Cos’hai mangiato?” – e scoprì che si era recato ad una festa con un amico dove aveva mangiato del pane e delle frittelle; la festa era stata allestita da un bramino povero. A questo punto Hamsarāj mandò il suo discepolo a scoprire perché e con quali risorse quel bramino avesse preparato quella festa a favore dei monaci di Badrinath. Il giovane maledì il giorno in cui erano iniziati quegli incubi; ora il suo Maestro gli aveva assegnato un incarico senza senso: doveva scoprire cose che gli sembravano irrilevanti e si domandò quale giovamento avrebbe potuto trarne la sua spiritualità. Sebbene nutrisse questi pensieri, si decise ad indagare su quella festa, sul suo motivo e sulle risorse con cui era stata allestita. Scoprì che i fondi erano stati messi a disposizione da un usuraio di sessant’anni al quale il bramino aveva dato in sposa la figlia ricevendo in cambio diecimila Rupie. La ragazza stava chiedendo a quei santi monaci un po’ d’umanità verso una innocente abbandonata.
[5] In questo modo Hamsāraj dimostrò al suo discepolo che prima di accettare un dono così intimo come il cibo, bisogna esaminare la fonte di provenienza, la ragione del dono e le passioni che animano il donatore. Potreste dirmi che solo i ricercatori spirituali devono tenere ben presenti queste regole, ma ditemi: chi non lo è? Tutti sono pellegrini sulla via; la differenza è solo che alcuni avanzano velocemente ed altri lentamente. Il fine è il medesimo per tutti, sebbene le vie possano essere molte. Ognuno qui ha un buon livello d’istruzione moderna; certo che fra il modo di vivere odierno e quello del passato c’è una differenza enorme. L’uomo ha fatto giganteschi passi avanti da quando indossava la corteccia degli alberi e abiti fatti di foglie. Questa è l’epoca del nylon, delle camicie e delle giacche imbottite. Ammettendo che tutto ciò sia segno di un livello superiore di civiltà, non dovrebbe forse corrispondergli anche un’elevazione del pensiero, dei sentimenti e delle azioni, dell’arte del vivere insieme e della conquista della pace mentale e della temperanza? Anche la vita spirituale dell’uomo deve diventare più acculturata e civilizzata, non credete? Ci vuole gratitudine per l’opportunità della nascita umana, per le benedizioni della bellezza e munificenza della Natura, per la comprensione dei valori umani più duraturi. L’attaccamento ai piaceri sensoriali deve essere tralasciato per la gioia più permanente della contemplazione interiore.
[6] Tyāgarāja aveva scoperto quella gioia e la espresse in composizioni musicali toccanti, in parole semplici e sincere, in canzoni che commuovono alle lacrime e fanno vibrare il cuore. Il re di Rāmand, che è il presidente di questa celebrazione, viene dal Tamil e quindi la lingua Telugu nella quale si esprimeva Tyāgarāja gli è sconosciuta ma, nonostante ciò, è profondamente toccato dalla musica ed ama moltissimo questi canti. Conoscerne il significato ed il contesto in cui emersero così spontaneamente e con tale dolcezza dalla devozione sublime di Tyāgarāja vi aiuterà ad afferrarne meglio lo spirito. Il linguaggio in cui cantava è quello del ricercatore che lotta, e molto raramente rispecchia quello del saggio realizzato. Potete apprendere facilmente quel linguaggio; non abbandonatelo solo perché è un linguaggio cui non siete abituati. Non c’è spazio all’inimicizia in questo campo, non si tratta di un confronto fra Stato e Stato. Il Comitato ha preso questo sacro impegno. A volte i suoi componenti potrebbero sentire che la responsabilità è troppo pesante, o addirittura barcollare sotto il peso di delusioni e difficoltà, ma li ho assicurati che non hanno alcuna ragione di scoraggiarsi. Il Signore Srinivāsa aprirà i Suoi occhi, e la vostra opera si realizzerà in un baleno. Egli aprirà senz’altro i Suoi occhi! Abbiate pazienza ed attendete pregando. La preghiera fa accadere l’impossibile. Recitate la gloria del Signore e ripetete il Suo Nome nella profondità del vostro cuore: ciò vi porterà al successo.
Tirupati, 05.04.1962
da DISCORSI 1961 1962 (Sathya Sai Speaks-Vol.II) ed.Mother Sai Publications